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Il vomerese di giù

Le diversità antropologiche dei napoletani


di Marcello D’Orta

A quanti mi domandano in quale quartiere vivo, rispondo che vivo al Vomero, ma non sono un vomerese di origine controllata, sono un vomerese di giù. Sono, cioè, un abitante del Vomero che è nato “giù Napoli”, come dicono i vomeresi purosangue. Tanto “giù”, che più giù, a Napoli, c’è solo il sottosuolo (assai interessante, in verità) e, naturalmente, l’Inferno. Sono nato infatti al vico Limoncello, nei pressi di Porta San Gennaro. Mio padre era della Sanità e mia madre di piazza Mercato. Anche i loro genitori erano di giù Napoli, e così i genitori dei genitori, fino ad arrivare, credo, a un Guidobaldo o Vitellozzo D’Orta, originari di piazza Dante o dei Tribunali. Quando salii al Vomero per incontrare la mia futura moglie (lei è dell’Arenella), mi sembrò di essere sbarcato in un’altra città. S’era in febbraio e, mentre dalle mie parti la temperatura era piuttosto mite, a piazza Muzy (luogo dell’appuntamento) faceva un freddo cane (trovai sollievo solo accostandomi alle vetrine della “Padella”, dove rosolavano alcuni polli allo spiedo).  La gente mi sembrava avere facce diverse, e diverso il linguaggio e i modi. Impressione? Nient’affatto. Le differenze “antropologiche” fra napoletani sono molteplici, come rilevano anche Luisa Basile e Delia Morea nel libriccino Lazzari e scugnizzi: “Il tessuto urbano della città è talmente variegato da prefigurare l’ipotesi che possano riscontrarsi differenze “etniche”, che danno conto delle varie dominazioni che si sono susseguite e che hanno influenzato gli usi e i costumi degli abitanti, la lingua e persino i tratti somatici”. Le autrici pongono differenza tra la popolazione di piazza Mercato e quella di Posillipo, quella dei Quartieri Spagnoli e quella di Santa Lucia eccetera. Anche Domenico Rea è di quest’avviso. In Pensieri della notte scrive: “Napoli ha tante differentissime zone per cui (…) fino a poco tempo fa gli abitanti di Posillipo non conoscevano quelli di Forcella e questi come quelli avevano abitudini e costumi diversi (…) i cittadini erano gli abitanti di Porta Capuana o del Mercato o della Stella; i contadini, quelli di Villanova del Vomero; i pescatori, quelli di Santa Lucia o di Posillipo”. Ero disorientato, quel giorno di febbraio del 1977, mi sembrava d’essere forestiero nella mia stessa città. Al Vomero c’ero salito poche volte, pur avendo ventiquattro anni. Per me Napoli era essenzialmente (anzi unicamente) il centro storico: piazza Dante, via Foria, via Duomo (dove abitavo), il Rettifilo… e poi non c’era “ragione” per salire al Vomero: “giù Napoli” c’era la stazione ferroviaria, giù Napoli c’era la “direttissima” (antesignana della metropolitana collinare) giù Napoli c’era il porto, giù Napoli c’erano le bellezze artistiche. Giù Napoli, insomma, c’era Napoli. La sola che riconoscessi. Era poi anche una questione di soldi. Nelle strade che frequentavo (via Foria, via Costantinopoli, port’Alba, Spaccanapoli) si vestiva (o a me sembrava che si vestisse) “alla buona”, c’erano osterie, friggitorie, negozi –per così dire- alla portata di tutti. Molti commercianti facevano credito, applicavano sconti: esisteva l’arte del “tirare sul prezzo”. Al Vomero sapevo che tirava altra aria. Lì c’erano i borghesi, non gli operai: i dottori in Legge, in architettura, in ingegneria, insomma c’era la Napoli che “stava bene”, e ricordo come ora l’imbarazzo che provai quando misi piede al Bar Sangiuliano: tutti ricconi che spendevano, si offrivano caffè, entravano con cani da concorso di bellezza: “Carissimo avvocato!” “Ingegnere amabile!”, e infiniti salamelecchi alle signore, pittate come Cleopatra. Allora pensai che il prossimo appuntamento sarebbe stato più opportuno darselo a metà strada, tipo Salvator Rosa, perché io al Vomero non ci stavo bene. La differenza più evidente la notai nella gastronomia. Dov’era il venditore di zeppole e panzarotti (che qui si chiamavano crocchè) fritti nell’olio “fetente” delle pizzerie di giù Napoli, olio che però conferiva un sapore tutto particolare a quelle frittelle? dov’era il venditore di “brodo di purpo”, presso il quale m’ero fermato tante volte (uno stava nei pressi della funicolare di Montesanto) per riparare dal freddo invernale (egli portava ad ebollizione il brodo, aggiungendovi una sorta di salsa piccante, e poi facendovi affogare una “ranfa” di polpo)? dov’era il carnacuttaro, e l’acquaiuolo che dietro la “banca dell’acqua” faceva mostra delle sue mummarelle? Quasi frastornato, tornai giù Napoli, dicendo a me stesso: “E chi si muove più da casa?”. Allora com’è che al Vomero ci vivo da trentadue anni? com’è che vi ho comprato casa? com’è che panzarotti e zeppolelle non le mangio più nell’olio fetente? com’è che frequento pasticcerie come Bellavia (Sangiuliano non c’è più…) e se metto piede giù Napoli mi sembrano mille anni che torno al Vomero? Se vi interessa conoscere le risposte, e se avrete la pazienza di aspettare un mese, lo saprete.

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